Svejk nella seconda guerra mondiale

· Giulio Einaudi Editore
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96
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Fu nel 1926 - l'anno della definitiva stesura di Un uomo è un uomo - che Brecht si misurò per la prima volta col personaggio di Svejk, riducendo per le scene, in collaborazione con Piscator, il romanzo di Jaroslav Hasek. Lo spettacolo si attenne fedelmente alla buffonesca (diciamo meglio, bertoldesca) irriverenza e al lepido-lugubre antimilitarismo dell'originale, e suscitò uno scandalo senza dubbio ben accetto agli autori, in particolare a Brecht: che andava sistemando, nella Hauspostille d'imminente pubblicazione, la virulenta, dissacratrice produzione poetica della sua gioventú, e il cui accostamento al marxismo scientifico, databile pressappoco da quell'anno, preludeva a una nuova fase della sua creatività. Stava per aprirsi l'epoca che per antonomasia si suole collegare ai «Lehrstiicke» (drammi didattici) e che avrebbe prodotto, accanto ai cicli poetici del Lesebuch für Städtebewohner (Libro di lettura per gli abitanti delle città) e delle Geschichten aus der Revolution (Storie del tempo della rivoluzione), grandi ed estremamente combattivi testi teatrali quali Santa Giovanna dei macelli e La madre. Su questo discrimine cronologico, insieme alla riduzione teatrale del Prode soldato Svejk, si situano lavori di brillante quanto aspra polemica, formale ed ideologica, come l'Opera da tre soldi e Mahagonny. E', insomma, un momento decisivo nell'evoluzione del poeta-drammaturgo, che tuttavia solo nell'esilio toccherà le sue vette piu alte.
Appunto negli anni d'esilio Brecht riprende in mano Svejk. Ha dietro di sé il triennio piú stupefacente della sua carriera d'artista (1939-41), da cui è nata quella serie di opere che daranno al suo nome, per ormai pacifico - o quasi - riconoscimento, autorità indiscussa e risonanza fondamentale nella storia del teatro e della civiltà del nostro secolo. Ma ha anche iniziato da anni, e non terminerà piú, tutto un travaglio di rielaborazione e di approfondimento della sua visione dialettica del mondo e della storia. L'antieroicismo, o antititanismo che dir si voglia, va enucleandosi come punto centrale di codesta visione: la storia non deve piú apparire come fatica e merito esclusivo dei personaggi destinati ad entrare «nei libri di lettura», ma bensí come costruzione cementata dal sudore, dalle lagrime e dal sangue della «piccola gente», della massa immane dei subordinati e dei dominati.

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