La nuova frontiera

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«La nuova frontiera» non è solo la formula – memorabile – nella quale John F. Kennedy decise di racchiudere il senso e la sfida della sua presidenza. Quando, nel luglio del 1960, la pronunciò per la prima volta, l’America si trovava in un passaggio difficile della sua storia, non tanto per i rischi di una perdita della supremazia strategica, in un mondo dominato dalla guerra fredda, quanto per una sorta di insicurezza, di calo di fiducia nel proprio potenziale e nei propri destini. A essere chiamata in causa era la dimensione della storia americana, la sua connaturata necessità di tendere verso nuovi obiettivi e nuove conquiste, pena l’insuccesso e la sconfitta. Un benessere materiale più solido e più largamente distribuito, una più forte acquisizione dei diritti e delle libertà di tutti, un abbattimento delle barriere e delle discriminazioni razziali, e in fin dei conti la disponibilità di ciascun americano a prendere sulle sue spalle il proprio destino, erano i necessari presupposti senza i quali non avrebbe potuto funzionare, né trovare una sua legittimità, l’idea stessa di un modello americano da proporre al mondo. Tra i discorsi e gli scritti raccolti in questo volume – tutti concepiti nel brevissimo torno di anni intercorsi tra la candidatura di Kennedy alla Casa bianca e la fine tragica a Dallas – spicca non solo il fascino di una retorica dell’America civile che ha trovato in Kennedy forse il suo più abile rappresentante (e che solo Obama ha mostrato di saper emulare). È il concetto di storia come processo aperto e sottoposto, in ultima istanza, alla responsabilità democratica di tutti i suoi attori: è la fiducia nella superiorità della democrazia sul dispotismo. Ed è la convinzione – magistralmente espressa nel pamphlet Una nazione di immigrati, per la prima volta qui tradotto in italiano – che sono le diversità a fare la qualità dell’America, che la sua forza si esprime proprio in ragione del carattere composito del suo aggregato. Gli immigrati sono l’America, ci ricorda Kennedy con una forza argomentativa incontrovertibile. Pensiero che suona, dopo cinquant’anni, fortissimo – e scomodo – all’orecchio delle nostre incupite paure di vecchi europei.

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