David Bowie. Fantastic voyage: Testi commentati

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Simbolo di libertà e creatività, edonismo e decadenza. Creatura in apparenza aliena, attraversata tuttavia da umanissime angosce sulla vita e sulla morte, la religione, la fama e il sesso: David Robert Jones, in arte Bowie, è ritenuto un genio (dagli estimatori) o uno scaltro manipolatore (dai detrattori), non sono ammesse mezze misure. In ogni caso il “camaleonte del rock”, come lo definiscono alcuni titolisti dotati di scarsa fantasia, non è mai banale ed è sempre pronto a spiazzare. C’è riuscito per l’ennesima volta l’8 gennaio 2013 – giorno del suo 66esimo compleanno – quando, dopo un’assenza di dieci anni, mentre i giornali avevano già preparato i loro “coccodrilli”, è resuscitato sul Web postando il video di una nuova canzone, Where Are We Now?, e annunciando l’imminente uscita dell’album THE NEXT DAY, preparato in gran segreto. Bowie è uno dei “grandi padri” del pop-rock. Sono ormai quarant’anni che calca le scene, ha attraversato (quasi) tutti i generi e alcuni ha contribuito a crearli: dal rhythm’n’blues degli inizi alla jungle-industrial degli anni Novanta, passando per il folk cantautorale, il glam rock en travesti, il plastic soul, la new wave in salsa kraut, l’elettronica sperimentale, l’heavy grunge alternativo e ancora molti altri. Se il sound e l’immagine non bastassero, ci sono le canzoni a fare la differenza: Space Oddity, Rebel Rebel, Young Americans, Let’s Dance... e la lista potrebbe andare avanti per ore. Musica potente, contrassegnata da liriche talora misteriose e di ardua decifrabilità. Tuttavia, come lui stesso ha ammesso, “in fondo alla fine ricorrono sempre gli stessi temi, che poi sono i miei interessi”. Non può che essere questo, pertanto, il punto di partenza per “decodificare” le liriche di un artista che ha saputo dare una brillante forma estetica alle proprie ansie e ai propri travagli esistenziali. Questi, a sua volta, erano i medesimi conflitti vissuti dai suoi fan; e Bowie, in tutti questi anni, non ha mai smesso di offrir loro quel conforto riassumibile nel metaforico, melodrammatico abbraccio con cui concludeva i concerti degli anni Settanta: “you’re not alone!”.

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